Un consorzio internazionale di ricercatori americani e di clinici italiani ha scoperto perché alcuni soggetti con COVID-19 sviluppano una forma grave di malattia. Lo studio contribuisce anche a spiegare perché i soggetti di sesso maschile contraggano forme gravi di malattia più spesso di quelli di sesso femminile.

I risultati dello studio collaborativo, pubblicati su due lavori apparsi oggi sulla prestigiosa rivista Science, dimostrano che difetti genetici ed alterazioni immunologiche che compromettono la produzione di interferoni e la risposta cellulare a queste molecole sono alla base di forme molto gravi di COVID-19.

Più del 10% dei pazienti con forme molto gravi di COVID-19 hanno risposte immunitarie anomale, con produzione di autoanticorpi che neutralizzano gli interferoni di tipo I, bloccandone l’attività antivirale nei confronti del virus SARS-CoV-2, responsabile della malattia. Circa un altro 3,5% dei pazienti ha alterazioni genetiche che impediscono la produzione di interferoni di tipo I o la risposta cellulare a tali molecole. In entrambi i casi, i pazienti mancano di risposte immunitarie efficaci contro il virus, che sono di norma assicurate
dagli interferoni di tipo I, un gruppo di 17 proteine essenziali per proteggere l’organismo dal virus.

I difetti genetici o l’autoimmunità contro gli interferoni contribuiscono quindi in modo importante a causare forme gravi, potenzialmente fatali, di COVID-19.

Lo studio è il risultato di un lavoro collaborativo che ha coinvolto il Dr. Luigi Notarangelo e la Dr.ssa Helen Su (National Institute of Allergy and Infectious Diseases di Bethesda, diretto dal Dr. Anthony Fauci) e il Prof. Jean-Laurent Casanova (St.Giles Laboratory of Human Genetics of Infectious Diseases, Rockefeller University, New York).
Questi ricercatori hanno instaurato un rapporto di collaborazione con alcuni ospedali lombardi presso cui sono stati ricoverati pazienti affetti da COVID-19. In particolare, gruppi di clinici e ricercatori dell’Azienda Sociosanitaria Territoriale degli Spedali Civili di Brescia e Università degli Studi di Brescia (coordinati dal Direttore Sanitario, Dr. Camillo Rossi), dell’Ospedale San Gerardo di Monza (coordinati dal Prof. Andrea Biondi) e del Policlinico San Matteo di Pavia (coordinati dal Prof. Marseglia) hanno messo a disposizione campioni biologici e dati clinici di pazienti con COVID-19 ricoverati presso tali strutture.

Il coinvolgimento degli Spedali Civili di Brescia è stato possibile grazie ad un Finanziamento della Regione Lombardia e alla sinergia che si è creata tra il personale del Laboratorio di Analisi Chimico Cliniche (Dr. Simone Paghera, Dr.ssa Alessandra Sottini, coordinati dalla Dr.ssa Luisa Imberti) e quello di alcune Unità Operative che hanno curato i pazienti, tra cui la UO Malattie Infettive (Prof. Francesco Castelli, Prof.ssa Eugenia Quiros-Roldan), la Nefrologia (Prof. Francesco Scolari), la Ematologia (Dr.ssa Alessandra Tucci), la Prima Rianimazione (Dr. Gabriele Tomasoni) e la UOSD Sclerosi multipla (Dr. Ruggero Capra).

E’ noto che il virus SARS-CoV-2 può causare infezioni di gravità molto diversa, da forme asintomatiche fino a quadri estremamente gravi tali da richiedere il ricovero in terapia intensiva e causare il decesso del paziente. I ricercatori hanno studiato migliaia di pazienti con COVID-19 con variabile grado di severità della malattia. Gli studi hanno mostrato che su 660 pazienti con forma molto grave di malattia, un numero rilevante presentava alterazioni a carico di 13 geni già noti per essere essenziali nella risposta al virus influenzale e ad altri virus. Il 3,5% dei pazienti ha presentato difetti importanti nella produzione di interferoni di tipo I o nella risposta cellulare a tali molecole. Inoltre, più del 10% dei pazienti con forma molto grave COVID-19 aveva autoanticorpi che bloccavano completamente l’attività degli interferoni di tipo I; infine, il 95% di questi pazienti erano di sesso maschile.

Queste osservazioni possono in futuro avere importanti implicazioni terapeutiche: nei soggetti con difetti genetici di produzione degli interferoni di tipo I è possibile pensare alla somministrazione di tali molecole, almeno nelle fasi iniziali di malattia (quando l’azione degli interferoni è particolarmente importante). Nei pazienti con autoanticorpi anti-interferone è invece possibile pensare a terapie che rimuovano gli autoanticorpi dal sangue (plasmaferesi) o alla somministrazione di farmaci che eliminino le cellule produttrici degli autoanticorpi.